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Gli indoeuropei e le origini dell’Europa di Francisco Villar

“… mangerete pane e berrete acqua…”

tavoletta cuneiforme di Ḫattuša, tradotta per la prima volta dall’ittita da Bedřich Hrozný, citata ne Gli Indoeuropei di Francisco Villar

Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, saggio linguistico-storico di Francisco Villar, professore di linguistica indoeuropea dell’Università di Salamanca, si colloca a metà strada fra lo scritto tecnico e il testo divulgativo, mostrandosi comprensibile, scorrevole e al tempo stesso straordinariamente approfondito.

Nell’arco delle cinque parti in cui il libro è suddiviso vengono trattate le origini dell’Europa per come la conosciamo oggi con un’accuratezza che in parte esplicita e in parte lascia intuire l’enormità del lavoro di linguisti e archeologi nel tempo e la complessità dei dibattiti ancora in corso.

Dei protoindoeuropei, popolo presumibilmente originario delle steppe del sud della Russia – in base alle conclusioni di Marija Gimbutas – e diffusosi in ondate più o meno ampie in Anatolia, Europa e subcontinente indiano nel corso di alcuni millenni, non abbiamo un endoetnico né un’etnia attualmente riconoscibile; nel corso della storia sono stati impiegati nomi differenti, fra i quali quello di “ariani”, in parte legato alla teoria razziale della presunta superiorità dei “discendenti” della cultura kurgan.

Immagine delle espansioni indoeuropei
Espansione dei popoli indoeuropei secondo la teoria kurganica. Colore viola: prima ondata (4400 a.C.-4300 a.C.); colore arancione scuro: seconda ondata (3500 a.C.-3000 a.C.); colore arancione chiaro: terza ondata (3000 a.C.-2800 a.C.) – Vedi Credito 1

Le nostre conoscenze sul popolo originario hanno preso avvio dal riconoscimento dell’affinità linguistica fra le numerose e diversificate popolazioni che hanno parlato e parlano lingue di origine indoeuropea, ad oggi la maggioranza linguistica nel mondo; si tratta di uno studio complesso che, pur se con rare eccezioni, conta solo una manciata di secoli di storia e un quadro originariamente incompleto per l’allora poca o nulla conoscenza da parte dei linguisti occidentali di lingue “laterali” come il sanscrito.

L’autore chiarisce che l’indoeuropeo originario è una lingua preistorica di cui non esistono documenti scritti e che non è la diretta antenata delle lingue attualmente parlate: il quadro è molto intricato e il lavoro di ricostruzione degli studiosi si basa sulla cooperazione non facile fra archeologia e linguistica, supportate anche dallo studio di Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza: la genetica fornisce infatti un importante contributo alla ricostruzione dei movimenti dei popoli, ed evidenzia continue ibridazioni. Soprattutto, occorre tenere presente che nella questione indoeuropea le affinità linguistiche non hanno ormai nulla a che vedere con l’appartenenza a una precisa etnia e che gli “indoeuropei” di oggi sono accomunati esclusivamente da una parentela linguistica di tipo prossimo, medio oppure lontano.

Nel campo della linguistica, punto di osservazione primario nel testo, è stato sviluppato il metodo scientifico comparativo fra le lingue storiche, basato soprattutto sulle coincidenze dei sistemi grammaticali. Il metodo, pur non consentendo di ricreare nella sua complessità la lingua originaria, permette la schematizzazione di numerosi vocaboli paragonabili dal punto di vista fonetico, lessicale e grammaticale e costituisce a tutti gli effetti lo studio della storia delle lingue che si parlano oggi.

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La struttura del testo

Le cinque parti che suddividono le 681 pagine dell’opera si articolano a loro volta in sezioni che sistematizzano la vastità dei contenuti.

Le origini degli indoeuropei

La prima parte inquadra le origini degli indoeuropei ed effettua un confronto con la “Vecchia Europa” preindoeuropea, caratterizzata da una moltitudine di popoli di cui abbiamo dati scarsi, ricavabili essenzialmente da onomastica (specialmente toponomastica e idronimia) ed epigrafia. In particolare la penisola iberica presenta numerosi esempi in questo senso, con le sue testimonianze precedenti alle ondate migratorie qui sopraggiunte in epoca più tarda.

Quelli della Vecchia Europa, che Villar menziona più volte nella sua opera, furono popoli tendenzialmente pacifici, organizzati secondo un sistema matriarcale, dediti all’agricoltura e al culto della Dea Madre. Di essi sono rimasti fra l’altro alcuni scritti pittografici ancora da decifrare, apparentemente riconducibili al lineare A di Creta: si tratta delle più antiche forme di scrittura, antecedenti a quella sumera di due millenni.

Immagine della Dea Madre
Sardegna (Italia) – Selegas – Dea MadreCredito 2

L’interesse storico per la Vecchia Europa si intreccia con quello linguistico: le lingue preesistenti sono parzialmente sopravvissute in forma di sostrato all’interno delle lingue indoeuropee che hanno nel tempo prevalso. Presumibilmente preindoeuropee sono l’etrusco, l’iberico, il sumero, le lingue della civiltà dell’Indo e le tre lingue della Grecia pre-ellenica, oltre a quella cretese già citata, solo per elencarne alcune.

Le più intense ondate migratorie (kurgan wave) ai danni delle popolazioni della Vecchia Europa si verificarono a partire dal momento del massimo splendore di quest’ultima: tra il 4400 e il 4200, e in seguito tra il 3400 e il 3200 e tra il 3000 e il 2800 a.C. ca. In particolare le zone danubiano-europee subirono l’infiltrazione dalle steppe prima di altre aree, configurandosi come un secondo centro da cui l’indoeuropeizzazione si sarebbe irradiata verso nord e verso ovest. Gli archeologi definiscono le genti di questo primo nucleo europeo il “popolo delle asce da combattimento”.

L’ultima grande ondata di indoeuropeizzazione si ebbe ancora in età moderna a partire dal 1500 d.C., con la progressiva colonizzazione delle Americhe.

Meno sconvolgenti delle massicce ondate, ma non meno importanti, sono i numerosi piccoli spostamenti di gruppi (presumibilmente questo è quanto accaduto anche nella penisola italica) che hanno prodotto indoeuropeizzazioni e reindoeuropeizzazioni, rendendo il panorama linguistico ricco di commistioni e complessità.

La struttura ad albero genealogico si rivela per certi versi inefficace, ed è per questo che sono stati proposti numerosi altri modelli di schematizzazione della parentela linguistica, ad esempio il modello delle onde, o i diagrammi dialettali, come quello di Meillet.

Ricostruzione genealogica delle lingue cosiddette “nostratiche”, ad opera de Il Samsara dei Libri a partire dal saggio di F. Villar. Lo schema, senza pretesa di esaustività, esclude in ogni caso le lingue non nostratiche quali, ad esempio, quelle sino-tibetane e quelle di presunto sostrato pre-indoeuropeo di cui esiste testimonianza scritta. Queste ultime vengono elencate alla pagina 87 del testo (lingue della civiltà dell’Indo, elamitico, sumero, urrita, hattico, le tre lingue della Grecia pre-ellenica -lineare A, disco di Festo, stele di Lemno-, scrittura di Vinča, etrusco, iberico, tartessio, pitto. Soprattutto, lo schema va inteso come un tentativo parziale da inquadrare nell’ambito vastissimo e controverso della scienza della catalogazione. Riguardo ai “travagli della dialettologia”, si veda il capitolo primo della quinta parte del testo (a partire dalla pagina 597), sezione che apre uno spiraglio sull’incompletezza delle nozioni in possesso dei linguisti e sulla sostanziale impossibilità di generare una schematizzazione contemporaneamente rispettosa della genealogia e della cronologia.

Le caratteristiche etniche, sociali e culturali degli indoeuropei

La seconda parte del libro ricostruisce nei limiti del possibile le caratteristiche etniche, sociali e culturali degli indoeuropei: sia la cultura kurgan sia quelle da essa derivate presentano un’organizzazione patriarcale in tribù spesso in lotta fra loro, stanziate in centri fortificati e talvolta unificate sotto il comando di un re prevalente, come il sistema delle πόλεις greche.

Di particolare interesse la questione della religione che, controversa riguardo alle sue caratteristiche specifiche, si rivela curiosa quantomeno dal punto di vista linguistico: *dyeus, sanscrito dyaus/deva, greco Ζεύς, latino Iovis (Diovis in latino arcaico), nordico Tiwes (genitivo), tedesco antico Zio, dio in italiano sono terminologie oscillanti fra nome comune e proprio della divinità principale del pantheon essenzialmente politeista di questi popoli.

Introduzione alla lingua originaria

La terza parte è una complessa introduzione alla lingua originaria dal punto di vista fonetico e morfologico. Viene chiarito che il metodo scientifico nato con Bopp e Rask non può riportare alla vita una lingua scomparsa ma può “aspirare a ricostruire il nucleo di elementi comuni a tutte le varietà” delle lingue da essa derivate attraverso il criterio delle aree laterali, quello di ricostruzione interna e secondo altri criteri di tipo universale, ad esempio la relativa regolarità dei mutamenti fonetici (come la rotazione consonantica).

Il sanscrito, che ai primordi dell’indoeuropeistica sembrava candidato ad essere la lingua più affine all’originale per via della sua antichità, ha visto ridimensionare il proprio ruolo in seguito all’acquisizione di nuove conoscenze, rimanendo lingua laterale fondamentale nel confronto fra le radici comuni del lessico di base, in particolare nel nome di alcune piante, animali domestici, rapporti di parentela.

Dal punto di vista fonetico le lingue indoeuropee si dividono in due grandi classi in base al trattamento delle velari e labiovelari: le centum (latino, greco, celtico, germanico, ittita, tocario) e le satem (indiano, iranico, slavo, tracio). Si consiglia la fruizione dell’alfabetico fonetico internazionale per la lettura dei suoni delle parole presenti nel testo.

Dal punto di vista morfologico si tratta essenzialmente di lingue flessive, di cui vengono presi in considerazione il genere, il numero, i casi. Genere e numero sono sezioni stimolanti per la comprensione dell’arbitrarietà delle scelte linguistiche e delle possibilità di differenti visioni del mondo (in lingue come il navaho sono presenti tredici generi, dei quali nessuno per il femminile/maschile, mentre in altre lingue a interporsi fra il singolare e il plurale sopravvengono duale, triale, quattrale).

Il genere nelle lingue indoeuropee si è peraltro modificato in base alle epoche: la fase più antica, anteriore alla separazione del ramo anatolico, dispone di due soli generi: animato e non animato. Sebbene Villar cerchi inizialmente di argomentare in favore della presunta non centralità del maschile nella maggioranza delle successive lingue indoeuropee in riferimento ai viventi, giunge poi a convenire che il patriarcato sociale si riflette nelle scelte linguistiche e nel pensiero, laddove, pur senza un’apparente prevaricazione, il maschile viene generalmente presentato come modello “base”, o “naturale”, mentre ciò che è femminile va specificato, evidenziando di fatto il sessismo presente in queste culture.

I popoli indoeuropei storici

La quarta parte analizza uno ad uno i i popoli indoeuropei storici: ittiti e popoli anatolici, illiri, albanesi, traci, daci, macedoni e peoni, balti, slavi, germani, celti, liguri, popoli italici, popoli iberici (inclusi i popoli non indoeuropei), frigi, armeni, greci, indiani e iranici, tocari.

Per ogni popolo viene presentata una mappa che ne individua il territorio e vengono menzionati i reperti in nostro possesso utili alla ricostruzione linguistica; così i Veda rispecchiano l’epoca della conquista del Punjab, il lapis niger si colloca fra i più antichi esempi del latino di Roma e il bronzo di Botorrita costituisce importante testimonianza dell’antico celtico.

Bronzo di Botorrita, tra le più importanti testimonianze della lingua dei Celtiberi e del celtico continentale – Credito 3

Ai fini dello studio, vengono distinti tre tipi di lingue indoeuropee: quelle ben conservate e non eccessivamente modificate, utili per la ricostruzione della preistoria della famiglia linguistica come sanscrito, greco, latino, baltico, slavo, lingue germaniche antiche (antico nordico runico, gotico e altre); quelle in rovina, che non conosciamo sufficientemente e di cui ci è pervenuto il lessico relativo alla toponomastica e all’onomastica come tracio, illirico, messapico, frigio, daco, misio, cario, lusitano, celtiberico, veneto, falisco e i dialetti sabellici; quelle che conosciamo ma che hanno subito pesanti alterazioni nel tempo, come armeno e tocario.

La dialettologia

La quinta parte si occupa della dialettologia, con particolare attenzione al travagliato e tutt’altro che concluso dibattito fra linguisti.

In generale i vari capitoli di ogni parte terminano con un breve riassunto dei concetti essenziali sviluppati e con conclusioni non di rado aperte a diverse possibilità e teorie, in considerazione della condivisione non universale di queste nell’ambito della comunità dei linguisti.

Villar, pur dichiarando la propria posizione nelle controversie, espone sempre la visione di altri indoeuropeisti suoi contemporanei o a lui precedenti, ricostruendo così anche la storia, le conquiste e gli errori nello studio e nella comparazione. Un esempio fra i tanti è quello del presunto legame fra celtico e italico in età preistorica, valutato differentemente a seconda che la differenziazione delle vocali a/o sia considerato un arcaismo o un’innovazione. L’autore, schierandosi a favore del carattere innovativo, ammette la possibilità di una relazione dialettale fra le due lingue, salvo proporre le criticità di questa visione nonché la differente interpretazione di eminenti colleghi.

Conclusioni

Il saggio merita ampiamente di essere letto perché crea nel lettore almeno due consapevolezze: quella della profonda spaccatura fra il mondo precedente all’espansione dei protoindoeuropei e quello successivo e l’altra, apparentemente in opposizione, delle continue e progressive commistioni linguistiche, culturali e genetiche.

L’argomento è appassionante per chiunque sia interessato a ricercare le origini e a comprendere il presente della maggior parte dei popoli umani. Ciò nonostante, si dovrebbe dissentire dal punto di vista dell’autore nel suo individuare la lingua come la più importante innovazione dell’umanità: discorso parzialmente comprensibile da parte di un linguista ma tecnicamente non corretto.

Il linguaggio è sempre stato presente, anche in forma non verbale e non meno importante; la comunicazione non è peculiarità della specie umana e non bisogna dimenticare che altre scoperte e invenzioni possono avere avuto portata maggiore ai fini di un’esistenza piena. Dispiace quindi leggere nella prefazione di Villar che il linguaggio articolato ha allontanato per sempre l’uomo dal resto delle specie animali. E’ preferibile pensare che il linguaggio articolato, peculiarità umana ma subordinato ai molti altri linguaggi, contribuisce alla definizione della nostra stessa animalità.

Le tassonomie biologiche sono peraltro campo di costanti sconfinamenti che male si adattano al tentativo di schematizzazione, proprio come non si adattano a rigorosa sistematizzazione i gruppi linguistici o le naturali ibridazioni genetiche di ogni specie, inclusa la nostra. Affermare che il nostro antenato ominide si trasformò in uomo in seguito alla creazione del linguaggio articolato significa legare arbitrariamente il concetto di “umano” a un certo tipo di modalità comunicativa, privilegiare una forma di abilismo (in questo caso l’uso o la padronanza della lingua) e dimenticare chi e cosa siamo.

Avviandosi alla conclusione del suo saggio, l’autore indica la linguistica indoeuropea come potenziale segnalatrice di eventi storici precedentemente insospettati o pochissimo documentati. In particolare, se si potessero colmare alcune lacune riguardo alle parentele linguistiche e alla dialettologia in generale, gli storici perverrebbero a una quantità di informazioni al momento impensabili.

Allettante è anche l’idea del cammino a ritroso, l’interrogarsi sulle parentele linguistiche arcaiche come quelle fra le lingue ritenute “nostratico” e ancora più indietro, fino alla nascita delle prime forme di linguaggio verbale.

Ci sono ipotesi affascinanti che individuano un antenato comune a tutte o quasi le lingue esistenti ed esistite, una lingua ancestrale risalente a 25.000-30.000 anni fa.

L’idea che esprimendosi nella quotidianità sia possibile utilizzare talvolta radici lessicali risalenti a quell’epoca è sorprendente ed emozionante.


Prima edizione originale: Los indoeuropeos y los orígenes de Europa: Lenguaje e historia – Editore: Gredos – 1991

Edizione utilizzata per la lettura: Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa – il Mulino – Luglio 2021


Crediti immagini:

    1. Credito 1: Schema sommario del processo di indoeuropeizzazione dell’Eurasia tra V e I millennio a.C., secondo la Teoria kurganica.
      Immagine creata dall’utente Dbachmann e caricata in data 3/10/2005 su Wikimedia Commons.
      Aggiornata l’ultima volta dall’utente SolarisAmigo in data 19/08/2022
      Licenza di distribuzione: Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
    2. Credito 2: Immagine della Dea Madre – Sardegna (Italia) – Selegas
      Immagine creata dall’utente Shardan e caricata in data 23/03/2007 su Wikimedia Commons.
      Aggiornata l’ultima volta dall’utente Shardan  in data 20/12/2012
      Licenze di distribuzione: GNU Free Documentation License, Version 1.2Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 UnportedCreative Commons Attribution 2.5 Generic
    3. Credito 3: Bronzo di Botorrita, tra le più importanti testimonianze della lingua dei Celtiberi e del celtico continentale.
      Immagine creata dall’utente Ecelan caricata in data 03/02/2007 su Wikimedia Commons.
      Aggiornata l’ultima volta dall’utente Alonso de Mendoza in data 27/02/2016
      Licenze di distribuzione: GNU Free Documentation License, Version 1.2Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 UnportedCreative Commons Attribution 2.5 Generic
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