“Io appartengo a me stessa” – Nastas’ja Filippovna Baraškova, L’Idiota, Fëdor Michajlovič Dostoevskij
“…io sono dalla parte dell’asino: l’asino è una persona buona e utile” – principe Lev Nikolaevič Myškin, L’Idiota, Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Una delle citazioni classiche da L’Idiota di Dostoevskij è “la bellezza salverà il mondo“. Sarebbe anche stato stimolante e attuale menzionare la meno usuale “atmosfera maledetta degli ultimi secoli” oppure estrapolare una frase dalla straordinaria descrizione dei pensieri di un condannato a morte. La scelta della rivendicazione di libertà di Nastas’ja Filippovna e dell’elogio dell’asino è tuttavia funzionale a una lettura del romanzo focalizzata su sfaccettature solitamente relegate a un ruolo subalterno, ma estremamente interessanti.
La volontà di Dostoevskij di rappresentare un uomo “totalmente bello“, intriso di potente bontà cristiana, e il parallelo timore dell’autore di non poter dare forma senza difficoltà a un tale personaggio, sono in realtà risolti magnificamente nella figura del principe Myškin.
La necessità di far apparire il suo protagonista “idiota” è la condizione imposta dal doverlo calare concretamente nella società ipocrita dell’epoca – di ogni epoca -, società priva di qualunque valore morale, concentrata sul denaro, sul rispetto vigliacco delle gerarchie e su una vuota ricerca di formale rispettabilità.
Eppure, tutta quella bellezza non solo non salverà il mondo, ma non sarà neanche sufficiente a lenire le tragedie dei personaggi che circondano Myškin. Questi lo scherniscono, lo amano, lo respingono, lo odiano e sempre in qualche modo si conducono come satelliti catturati dalla sua forza di gravità, ma senza modificarsi. Quest’uomo malato di epilessia, forse neurodivergente, incapace di controllarsi socialmente a livello fisico ed espressivo, è incredibilmente dotato di “intelligenza primaria“, una forma di empatia che, nel tentativo di abbracciare tutti, non riesce tuttavia ad afferrare nessuno. Questo sostanziale fallimento è possibile senza che venga tolto nulla al fascino invincibile del personaggio.
Allora perchè non essere a propria volta attratti dall’intensità di questa figura letteraria?
Sappiamo che Myškin rappresenta un’incarnazione di Cristo. Un Cristo con molteplici limiti ma con il dono divino di comprendere, nel senso inclusivo del termine, chiunque incontri sul proprio cammino. Gli è possibile amare contemporaneamente Nastas’ja e Aglaja, le cui essenze profonde lui solo può intuire; ne vede i peccati e i difetti ma, soprattutto, ne riconosce la connaturazione con l’Assoluto. Per questa ragione di Nastas’ja può dire: “E’ pazza“. Per lui, la donna è inconsapevole della propria implicita dignità ontologica.
Allo stesso modo Myškin è devoto al proprio benefattore Pavliščev, è amico della famiglia Epančin, elogia ai ricevimenti alto borghesi e nobili spocchiosi, riesce a sopportare i tentativi di inganno di Lebedev e in generale non si irrita con tutti gli altri approfittatori e ubriaconi che per lui hanno parole di derisione esplicita e reiterata ( “La maggioranza di quelle persone, nonostante l’imponente esteriorità, era composta da persone abbastanza insulse che, tra l’altro, ignoravano, nel loro autocompiacimento, che quello che di buono c’era in loro era solo messinscena“).
Riduzione televisiva in sei puntate de L’Idiota del 1959, per la regia di Giacomo Vaccari e la sceneggiatura di Giorgio Albertazzi. Nel cast, sono presenti fra gli altri Anna Proclemer e Gian Maria Volonté.
Soprattutto, il principe accetta amorevolmente Rogožin, personaggio complesso, cupo, “fratello” e antagonista a un tempo, in balia delle proprie passioni, specialmente di quella per Nastas’ja. Impulsi che lo porteranno a gesti estremi nel climax finale.
Dunque perchè capovolgere l’usuale ordine di importanza e lasciare a Myškin il ruolo di polarizzatore ponendolo però, piuttosto che al centro, sullo sfondo?
Probabilmente perchè la religiosità di questo personaggio non rende piena giustizia ai vissuti individuali delle altre esistenze, di cui Dostoevskij è peraltro eccezionale evocatore: con la sua abilità di approfondimento psicologico spinge all’introspezione il lettore contemporaneo ponendolo davanti a uno specchio al quale non può sottrarsi. Allo stesso tempo, questi personaggi su cui riflettere e riflettersi non sono valorizzati appieno per se stessi, non trovano una risoluzione e non vengono riconosciuti nel loro potenziale di libertà. Quando questa condizione è determinata dalla società descritta, Dostoevskij sta tacitamente denunciando l’immoralità e i condizionamenti dell’ambiente. I personaggi allora emergono con le loro potenti contraddizioni in tutta la drammatica tensione verso aspirazioni e possibilità recise a priori dal contesto. Quando invece a prevalere è la morale che Dostoevskij stesso predilige non vengono contemplati altrettanto seriamente i desideri dei soggetti; non è prevista per essi alcuna possibilità al di fuori del percorso ineluttabile della trama, che sul cristianesimo fonda le sue premesse. Le soggettività restano importanti in quanto espressione del divino, non per ciò a cui pensano o anelano. Si tratta di una condizione connotata di inesorabilità che per lo più ricalca gli schemi della castrante società rappresentata, senza mettere in discussione l’impossibilità di alterarla profondamente.
Nella storia di Marie, la giovane colpita dalla riprovazione collettiva di un intero villaggio, è la carità cristiana di Myškin a divenire protagonista, pietismo che non solo non salva la ragazza ma che, con la sua totale mancanza critica, invisibilizza quelle che potrebbero essere in nuce le problematiche della questione femminile, citata più volte dai personaggi di Dostoevskij nel romanzo, e mai approfondita.
L’affetto per Marie che i bambini apprendono dal principe resta un sentimento irrazionale, possibile per la sua estraneità alla sovrastruttura sociale ma incapace di fare chiarezza sulle vere responsabilità e di liberare la ragazza dal marchio d’infamia che porterà con sé nella tomba.
Anche l’asino che “colpì enormemente” il principe viene apprezzato per la pazienza, il “basso costo” e la capacità lavorativa: così le istanze di un essere riconosciuto speciale per la bontà, addirittura in quanto persona – come è, di fatto – non giungono ad essere identificate. Non si ravvisa un valore individuale per questa soggettività calata nel tempo e nello spazio, e manca la visione della vita in quanto rilevante per se stessa. L’episodio si riduce semmai a un’altra metafora di modello cristiano, di sottomissione a una legge ideata e sostenuta da altri. L’asino, ad ogni modo, ridicolizzato parimenti al principe dalla superficialità delle tre sorelle Epančina, ne condivide parzialmente la sorte, smarcandosi dal cinismo mondano: difficilmente però questo posizionamento risalta agli occhi del lettore come diritto e merito dell’animale non umano, il quale viene seppellito nelle visioni strumentali e fra loro dissimili che i personaggi che ne discorrono gli conferiscono.
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Alessandro D’Avenia afferma che la cultura “non è ciò che si consuma“: occorre andare oltre e far risuonare in se stessi le parole di Dostoevskij. In effetti D’Avenia non riferisce esclusivamente dell’ortodossia di Dostoevskij ed esterna il proprio personale cristianesimo.
Questo tuttavia comporta alcuni problemi.
D’Avenia contesta il riduzionismo ma definisce gli umani “esseri narrativi“, applicando ad essi una sorta di riduzionismo al contrario, trascurandone le espressioni vitali dirette; d’altro canto, si premura di precisare che gli altri animali non utilizzano la narrazione poichè “non hanno futuro“. Applicando avventatamente agli animali non umani questo gratuito riduzionismo, teoria meccanicistica di brutale cartesiana memoria, presume di poter negare loro la capacità di vivere il presente e gli altri tempi, quando invece con trepidazione, ansie o gioia, sognano, ricordano, attendono, pregustano, prefigurano e desiderano.
L’asino di Myškin potrebbe acquisire un significato rinnovato se solo se ne volesse riconoscere la compiutezza esistenziale, atto possibile superando i pregiudizi cristiani dei personaggi, dell’autore e della critica, e facendo –davvero– risuonare dentro il sè lettore la capacità di riconoscersi nell’altro essere senziente.
Nel corso del romanzo viene affrontata in ottica cristiana anche una serie di tematiche diffuse presso gli intellettuali russi del XIX secolo: liberismo, cattolicesimo, socialismo, nichilismo, anarchia, ateismo.
Il cristianesimo ortodosso di Dostoevskij appiattisce molto spesso concezioni profondamente diverse fra loro sull’immagine di un’ideologia unica e deprecabile, rintracciando in una matrice comune – l’egoismo e la disperazione – l’origine di tutte e presagendo nel futuro di ciascuna gli stessi funesti esiti per il popolo russo e per l’umanità.
Sebbene in molte delle ansie di Dostoevskij si possa oggi leggere il presagio dell’avvento di Stalin, la paura di perdita dell’individualismo e della rivoluzione violenta non sono in generale pertinenti alla realtà.
Dai concetti dell’odio liberale verso la Patria e di totalitarismo socialista, del “nulla” dell’ateismo e del materialistico cattolicesimo romano scaturisce un aspetto imprevedibile di Myškin, che gli fa perdere la sua mitezza e lo trasforma nel Cristo che si infuria con i mercanti al Tempio (“E questa non è la dottrina dell’Anticristo?! Come avrebbe potuto da essa non derivare l’ateismo? L’ateismo deriva dai cattolici…“)
Nonostante l’interesse giovanile per il fourierismo e in generale per timide idee socialiste (Dostoevskij non fu mai un radicale e tantomeno un rivoluzionario, anche se animato da sentimenti di bontà verso il prossimo), dopo la commutazione della condanna a morte e nel corso degli anni di lavori forzati in Siberia, furono la conoscenza diretta dell’umanità e l’avvicinamento alla fede a determinare, a partire dal 1854, il pensiero definitivo dello scrittore. Pensiero che si concretizza e non resta “credo” superficiale, ma che rimane lacunoso nell’inquadrare la natura delle differenti correnti che contestava.
“Gli atei e i gesuiti russi… nascono… anche per il malessere spirituale, per la sete spirituale, per la mancanza di una grande causa, di una riva solida, di una patria nella quale hanno cessato di credere, perchè non l’hanno nemmeno mai conosciuta!“: con questa frase pronunciata in tono accalorato Myškin (e con lui il suo creatore) fa riferimento alla passionalità russa che, a suo giudizio, rincorrerà sempre una forma di trascendenza.
Nel far pronunciare queste parole al suo personaggio, l’autore cerca però di ricavare una regola generale che non è applicabile sempre.
Se il ripiegamento cattolico di alcuni può avere avuto a che vedere, come sostiene il principe, con la vanità, o con il bisogno di trovare rifugio in questa vanità, l’ateismo invece non avrebbe potuto prosperare per tutto il corso della storia come semplice opposizione al cristianesimo. Ne consegue che l’ateismo non scaturisca da, nè rappresenti la “disperazione“, ma che permanga in virtù di dignità e moralità proprie. In quest’ottica può essere accostato all’etica anarchica che, lungi dall’essere un ossimoro, è più salda della condotta imposta da religioni o costumi sociali, e per due ragioni: è radicata nel profondo della coscienza del singolo e si basa sul principio di libertà universale.
L’universalità del bene comune determina in sostanza un’etica affrancata da comandamenti irrazionali e inspiegati. Non è in pratica possibile, come vorrebbe Dostoevskij, far coincidere cristianesimo e morale universale, a meno di condurre davvero a quel senso di smarrimento e autodistruzione causato dalla scissione fra gli individui e la loro essenza.
Soggetta esclusivamente alla nozione di libertà (che si contraddirebbe se non trovasse i propri limiti nell’altrui diritto) e al concetto di consenso, la morale anarchica, automaticamente in grado di garantire la tutela dell’individualità, non necessita di supervisione, minacce e repressione semplicemente perché non può essere trasgredita.
Sono numerosi d’altra parte i pensatori anarchici accomunati dall’idea di giustizia sociale e di mutuo appoggio: fra essi Bakunin, che sosteneva “Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, profonda e ampia diviene la mia libertà” (Dio e lo Stato, pubblicato nel volume Rivolta e libertà, Editori Riuniti, Roma 1973 e dal Catechismo rivoluzionario pubblicato nel volume Libertà uguaglianza rivoluzione, Antistato, Milano 1976). Bakunin sancisce così la correlazione fra libertà e uguaglianza e dunque l’idea di giustizia sociale, sebbene scontando il condizionamento antropocentrico dell’epoca che, pur non impedendogli di riconoscere l’animalità umana, non gli consentiva di comprendere la cosciente volontà di ribellione degli animali non umani.
Il convincimento, rintracciabile anche ne I Fratelli Karamazov, per il quale “se dio non esiste tutto è permesso” non è quindi applicabile all’anarchia né a ogni forma di ateismo; d’altra parte, ciò che secondo le preoccupazioni di Dostoevskij avrebbe condotto alla scellerata divinizzazione dell’uomo non è, come lo scrittore supponeva, la negazione di dio, bensì la prosecuzione di quell’antropocentrismo avviatosi a partire almeno dal neolitico e inglobato opportunisticamente dalla maggioranza delle religioni, incluse tutte quelle di stampo cristiano, e nella scienza, se non intellettualmente onesta.
Religione e nazionalismo si legano dunque per esigenza di conservazione e conservatorismo, sicché anche Myškin esclama: “Chi non ha il terreno sotto i piedi, non ha neanche Dio“. Ma la necessità di un terreno sotto i piedi è distinta dai bisogni di identità nazionale mentre, riguardo alla morale, sono bastevoli valori collettivi di rispetto e condivisione. Allo stesso tempo, la fede religiosa dovrebbe occupare l’ambito personale e restare priva di ripercussioni sulla sfera pubblica e sul resto dell’esistente.
Concludendo, in una collettività anarchica l’uso della violenza può esistere solo come forma di resistenza a una aggressione che la precede; il nichilismo non è il male scaturito dall’emancipazione ma una possibilità verso l’emancipazione stessa; l’accettazione passiva di un codice comportamentale non è garanzia di tutela quando le regole non vengono interiorizzate; se discriminanti, le imposizioni arbitrarie sono esse stesse causa primaria di destabilizzazione sociale; la possibilità dell’angoscia esistenziale in un universo senza dio non è colmabile con l’ingiunzione della religione, né è possibile ritenere che in un animo maturo sia l’esistenza della sofferenza a eradicare il concetto di dio piuttosto che, come più logico, l’improbabilità della sua esistenza.
Un ulteriore aspetto del romanzo che merita di essere analizzato a causa del suo impantanarsi nella prospettiva cristiana è la questione femminile.
Già accennata nella vicenda di Marie, può essere affrontata più ampiamente attraverso il personaggio di Nastas’ja Filippovna Baraškova. Sebbene le due donne sembrino molto diverse (apparentemente remissiva Marie, più sfrontata Nastas’ja) il loro percorso presenta diversi caratteri comuni, essenzialmente determinati dall’impossibilità di esprimersi pienamente, di autodeterminarsi e di salvarsi.
I personaggi di Dostoevskij, a differenza di quelli di Tolstòj, sono spesso contraddittori, “ambigui e non conclusi“, come ricorda Gianlorenzo Pacini, e tuttavia altrettanto verosimili, per quanto sicuramente più sfuggenti e imprevedibili, e anzi forse proprio per questo. Tali incongruenze derivano spesso dallo scontro della complessa personalità del personaggio stesso con l’ambiente in cui è calato, scontro che si avverte intensamente nelle figure femminili.
Nastas’ja si trova a vivere sin da bambina in un ambiente non sicuro perché, orfana, viene affidata insieme alla sorella al funzionario in ritiro Tockij. Questi, man mano che la giovane cresce ne nota la bellezza, finendo per abusare di lei.
La cattiva fama della donna deriva quindi da un’azione il cui vero colpevole non paga come dovrebbe e anzi è tollerato in società.
Nastas’ja è un personaggio intelligente, consapevole, che riesce a suo modo a prendersi soddisfazioni umiliando i propri aguzzini (mortifica l’avidità di Ganja e di tutti i presenti gettando denaro nel fuoco e restituisce la collana al generale Epančin, consigliandogli di donarla alla moglie). E’ profondamente tormentata e divisa tra il desiderio di una vita felice e il peso della propria indegnità, di cui a tratti mostra di sapere di non essere responsabile, sebbene una forte spinta all’autodistruzione e al compiacimento di un destino ingrato siano il leitmotiv di tutto il romanzo.
Con la rappresentazione del carattere di Nastas’ja, Dostoevskij ha raggiunto vette narrative difficilmente replicabili; il personaggio della donna manifesta una continua tensione verso la creazione di situazioni drammatiche, atte a punire gli altri e se stessa contemporaneamente. Il rifiuto della proposta di matrimonio di Myškin e l’indecente fuga con Rogožin indicano spinte emotive diverse e contrastanti: questa “vendetta giapponese“, come viene definita da Pticyn, arriva a tempo, in un punto della storia in cui il lettore contemporaneo è esasperato dall’assenza di uno strappo nelle relazioni distorte di una comunità umana totalmente falsa.
Le motivazioni di Nastas’ja sono svariate, come si diceva: da un lato ci sono l’orgoglio e la volontà di infrangere le convenzioni sconvolgendo gli altri dopo averli svergognati; dall’altro il permanere di un’effettiva poca stima di sé, probabilmente interiorizzata nel tempo a causa del dispregio patito. La bassa autoconsiderazione di Nastas’ja si risolve nel compiacimento di affondare nella scarsa considerazione collettiva, di sminuirsi e di acuire un’infelicità a cui in fondo la donna non crede possa esservi rimedio. Infine, è già presente in lei l’amore per Myškin, il desiderio altalenante di non rovinarlo, l’idea -ancora indotta da fattori esterni- di non esserne degna.
Nonostante lo spessore di questa figura letteraria la cui presenza problematizza il consesso umano che la attornia, la comprensione profonda che Dostoevskij esprime per lei attraverso Myškin permane nella sostanziale inazione. La possibilità di una risoluzione definitiva per Nastas’ja che non sia mero conforto o pietà cristiana (espresse anche attraverso una proposta di matrimonio lontana dal costituire un riscatto concreto) non si materializza mai.
Myškin non giudica la donna per il suo vissuto ma neppure si schiera apertamente contro le cause dell’oppressione di lei: il conservatorismo gli impedisce di superare un atteggiamento che nella pratica non si discosta troppo da quello di molti altri personaggi, condannando così Nastas’ja all’impossibilità di liberarsi. Dostoevskij stesso sembra accettare il ruolo subalterno femminile, il suo vincolo immutabile col patriarcato e col sacrificio. Questa concezione è sorretta da una paternalistica visione cristiana di riscatto in una vita ultraterrena e consentita della pressoché totale mancanza di considerazione del diritto di autodeterminazione.
Anche Nastas’ja diventa così una figura didascalica la cui emancipazione risiede nella redenzione offerta dalla sofferenza, senza che venga in alcun modo intaccata la radice del problema.
È questo immobilismo ideologico a impedire al principe di prendere sul serio le istanze di emancipazione delle donne che lo attorniano. Lo mette in pratica anche con Aglaja, quando questa gli comunica il desiderio di vedere il mondo, di non vivere più nelle costrizioni e di fuggire di casa (“Ma siete impazzita?” – “Non riusciva a capire come in una bellissima fanciulla altezzosa e severa potesse manifestarsi una tale bambina, che forse anche adesso non capiva bene tutte le parole che diceva“).
Lo spettro del patriarcato si agita insomma per tutto il romanzo: persino la combriccola di Rogožin, costituita da loschi individui che lo scrittore identifica in atei e nichilisti, considerava “...Nastas’ja Filippovna…con il più profondo disprezzo, e persino con odio“.
Dunque anche esponenti di gruppi progressisti condannano la donna, salvo poi essere intimiditi dal lusso del mobilio e dell’ambiente elegante, al pari degli altri ipocriti più rispettabili. Ma si sa, l’autore non aveva una buona opinione di atei e nichilisti.
In questo modo i personaggi femminili restano indifesi, isolati l’uno dall’altro oppure coinvolti in relazioni dichiaratamente conflittuali: Varvara detesta apertamente Nastas’ja mentre Aglaja ha con lei un confronto durissimo verso il finale del romanzo.
Questi rapporti ostili sono un’ altra conseguenza dell’egemonia maschile: per allontanare da sé il rischio di identificazione con la “donna perduta“, le altre donne la disprezzano pubblicamente, sicché Nastas’ja resta isolata, in balia di due uomini sostanzialmente inutili: un pessimo soggetto (Rogožin) e un uomo incapace di prendere posizione contro un destino fatale (Myškin).
In questo senso è corretta la schietta critica di Baylee ne La Siepe di More: “l’unica salvezza possibile per lei sarebbe nel raggiungimento di una consapevolezza e in una rete di aiuto femminista che in quel tempo e in quel luogo – e, aggiungerei, in quella penna – non poteva avere”.
Il cristianesimo ne L’Idiota e le problematiche ad esso connesse sono stati il filo conduttore di questa analisi finalizzata a una rilettura critica attuale. Non sono infatti le concezioni della seconda metà del XIX secolo nè la fede strettamente personale di Dostoevskij a essere prese in considerazione bensì la modalità con la quale il cristianesimo dei suoi personaggi ostacola, attraverso interazioni connotate da buonismo puerile e sottomissione mediati da una “morale” non universale, potenziali sviluppi ideologici e pratici, scontando limiti a livello comunicativo invece di favorire una spinta più marcatamente rivoluzionaria, matura e aderente alle problematiche contingenti di ogni momento storico.
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Prima edizione italiana: trad. anonima, 2 voll., Milano: Fratelli Treves, 1902. Anno pubblicazione: 1902
Edizione impiegata per la lettura: trad. Alfredo Pollegro, Einaudi tascabili Classici, EAN: 9788806220624, Anno pubblicazione: 2014
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Crediti immagini:
- Credito 1: immagine del dipinto Il corpo di Cristo morto nella tomba – Ing.: inglese: The Body of the Dead Christ in the Tomb di Hans Holbein il Giovane. Caricata su Wikimedia Commons dall’utente Qp10qp in data in data 16/02/2009 e distribuita con licenza di Pubblico Dominio;
- Credito 2: immagine di un asino. Caricata su Wikimedia Commons dall’utente Mostafameraji in data 23/08/2020 e distribuita con licenza di Pubblico Dominio;
- Credito 3: immagine di Alexandra Kollontaj effettuata prima del 1900 e caricata su Wikimedia Commons dall’utente 1970gemini in data 02/01/2020 e distribuita con licenza di Pubblico Dominio.
Credito per immagine di copertina
- Realizzata da Sabrina Mossetto